Nel 56, a Lisbona, il congresso della FIFA assegna l’organizzazione della coppa Rimet al Cile. Una decisione che desta perplessità: dopo due mondiali ospitate dall’Europa la scelta del continente è ovvia, però il Cile non ha grandi tradizioni calcistiche e soprattutto vivono situazione economica tutt’altro che soddisfacente.
Ne farà le spese anche la stessa squadra azzurra contro la quale (aizzando un popolo già di per sé Caliente di estremamente nazionalista) si scagliano radio e giornali, in seguito ad alcuni reportage pubblicati in Italia sulla situazione locale, fra l’altro anche aggravata dal terribile terremoto che ha sconvolto il paese un paio d’anni prima della disputa del mondiale. In quel ’62 il Sudamerica è comunque raggiunto dal meglio del calcio mondiale: l’assenza di maggior rilievo è quella della Francia (brillantissima terza in Svezia) che, perso il suo bomber Fontaine, ha dovuto dare strada alla Bulgaria nello spareggio di Milano. Una qualche sensazione, per la verità, desta anche l’assenza del Portogallo (di Eusebio e company), peraltro eliminato dall’Inghilterra.
L’Italia, dopo l’1-0 a zero contro la Germania Ovest, deve vedersela con i padroni di casa e la questione (già complicata per le vicende extra calcistiche che ci hanno coinvolti) si fa addirittura drammatica anche a causa di un arbitraggio che censurare non è sufficiente: se ne rende protagonista l’inglese Kenneth Aston, probabilmente impaurito dall’urlante muraglia umana che insulta gli azzurri. Già dopo sette minuti indirizza negli spogliatoi il sanguigno Ferrini (reo di aver cercato di difendere Maschio a terra con un occhio tumefatto) e nelle battute conclusive del primo tempo anche David “colpevole” di essersi preso un pugno sul naso dal cileno Leon Sanchez. L’Italia se ne torna mestamente a casa mentre il Brasile (che ha subito perso Pelé, causa uno stiramento) si avvia al bis. Gli oroverde sono suppergiù quelli di Stoccolma (l’infortunato O Rey è sostituita al meglio da Amarildo) e al centro della difesa ce la coppia Mauro-Zozimo al posto di Bellini-Orlando) e però con cambio del modulo: il duttilissimo Zagallo gioca notevolmente arretrato in soccorso del vecchio Nílton Santos e il 4-2-4 di Feola si trasforma nel 4-3-3 di Moreira. Due diversi stili tattici, che espressi dei giocatori del Brasile hanno in comune talento, classe e quale più logica conseguenza anche il titolo mondiale.
I protagonisti
Ed eccoli i protagonisti che sotto il cielo di Santiago illuminano i campi da gioco: sono 3, due dei quali militano nel Brasile e uno nella Cecoslovacchia.
Garrincha (Brasile)
Ala destra, forse il miglior numero sette di tutti i tempi. Fa ammattire i suoi “guardiani”: ha una finta assolutamente esplosiva che gli fa saltare l’uomo e lo mette sempre in condizione di mettere il pallone in aria. È il principale suggeritore di Vavà nel 58, mentre nel 62 (subito infortunati Pelé) si carica sulle spalle gli oroverde e li guida al titolo a suon di goal. Garrincha (nome di un passero della foresta brasiliana), laggiù forse il più popolare addirittura di Pelé, non sa purtroppo gestire il post calcio: si dà al bere, muore povero.
Gilmar (Brasile)
Un tempo, a differenza di oggi, il Brasile non era patria di portieri di lignaggio: laggiù (nella patria del goal del football bailando) il golero è tutt’al più considerato un ruolo necessario. Su tutti (nella storia della Seleção) si ha la figura di Gilmar, campione del mondo nel 58 e nel 62. Potente, grandioso fra i pali e nelle uscite, elegante, acrobatico, una garanzia che offre sicurezza al pacchetto arretrato della formazione oroverde. Senza dubbio il miglior portiere forgiato dal calcio brasiliano.
Josef Mapopust (Cecoslovacchia)
Centrocampista di qualità e quantità. Ha doti di fondo, ma soprattutto grande tecnica e spiccato senso strategico. Nel 62, in Cile, guida la Cecoslovacchia alla finale contro l’irraggiungibile Brasile: è il momento migliore della carriera e a fine anno gli viene conferito il Pallone d’Oro quale miglior europeo dell’anno. Si tratta del primo calciatore dell’est a ottenere un simile riconoscimento.
Il caso
Com’era facile prevedere, la manifestazione ospitata dal Cile non ha catalizzato le masse. L’affluenza di pubblico per il mondiale cileno e la più bassa dell’intera storia del mondiale, con una media a gara di soli 24.250 spettatori. L’unica eccezione è fornita dal nazionalismo spinto di quel popolo: gli stadi si riempiono quando in campo c’è la nazionale di casa. Nelle sei partite che hanno visto impegnato il Cile di Riera, gli spettatori sono stati in media 60.000. Il punto più basso di disinteresse, quasi inspiegabile, si ha per la semifinale tra Cecoslovacchia e Jugoslavia: solo 5890 spettatori.
La squalifica di Sivori
Omar Enrique Sivori, detto “il Cabezón“, l’argentino della Juventus sul quale erano (mal) riposte le speranze azzurre di ben figurare in Cile, rischia addirittura di non effettuare la trasferta in Sudamerica. Succede che sul finire del campionato (a quattro giornate dallo stop) un tentativo di aggressione da parte del focoso bianconero (salvato dal disastro da un provvidenziale placcaggio del connazionale della Sampdoria Cucchiaroni) all’arbitro Grignani comporti una pesante ed esemplare squalifica di sette giornate.
Sono però in ballo i mondiali, previsti un paio di mesi più tardi e Sivori, come detto, e fra gli azzurri più attesi. Con tutta probabilità l’avvenuta manipolazione della squalifica (dapprima ridimensionata e poi scontata in parte in campionato e in parte in Coppa Italia) tiene conto anche di questo.
Pugni e cartellini rossi
Se dovessimo stilare una classifica delle scorrettezze tra i calciatori cileni che, con il consenso dell’arbitro inglese Aston, hanno attaccato gli azzurri, il primo posto sarebbe senza dubbio conquistato dall’attaccante Leonel Sanchez. Non solo è stato scorretto, ma anche malvagio, un autentico assassino in campo, mandato (sembra) con l’obiettivo di indebolire le nostre forze. Già al settimo minuto, durante una rissa, rompe il setto nasale di Humberto Maschio con un pugno: questo episodio porta all’espulsione dell’impetuoso Giorgio Ferrini.
Verso la fine del tempo, Sanchez si comporta allo stesso modo: un altro pugno preciso e potente colpisce il nostro David. Qui interviene l’inadeguatezza dell’arbitro inglese, che ancora una volta si affretta ad allontanare dal campo il povero e dolorante difensore azzurro. Questa è la cronaca.
C’è però un’aggiunta: un paio di anni dopo, Leonel Sanchez ha avuto anche il coraggio di presentarsi in Italia (alla Sampdoria) per cercare un contratto. Ovviamente, non è successo nulla, a Genova erano già stati bruciati dall’arrivo del connazionale Toro, che non è certo un fenomeno, ma almeno è un bravo ragazzo.