Se nel ’62, in Cile, il nemico era l’Italia, nel mondiale disputato in Messico, otto anni più tardi, viene presa di mira l’Inghilterra. Laggiù non è stata dimenticata l’etichetta animals, affibbiata ad argentini e uruguaiani dal tecnico Alf Ramsey nel ’66.
Se ne accorgono presto gli inglesi: a Bogotà, prima di un amichevole con la Colombia, il capitano Bobby Moore viene arrestato (con l’accusa di aver rubato un braccialetto in gioielleria) e rilasciato soltanto dopo il versamento di una sostanziosa cauzione.
L’appuntamento per il primo mondiale in altura viene fallito da alcune protagoniste di primo piano: Portogallo, Ungheria, Francia, Spagna e Jugoslavia, anche se il forfait più clamoroso arriva dall’Argentina, eliminata dal Perù affidatosi al due volte campione del mondo brasiliano Valdir Pereira, più noto come Dìdì.
Non è tutto: nella zona dell’America centrale il calcio, al quale vengono abitualmente riconosciuti effetti concilianti, quella volta porta pure alla guerra fra El Salvador e Honduras, paesi divisi dall’ideologia e ora anche nemici per faccende di football. L’esercito salvadoregno invade l’Honduras il 14 luglio 1969 e si ritira sei giorni più tardi: i morti sono oltre 2000.
Il tris di Pelè e del Brasile
In finale arrivano i due Paesi usciti peggio dal mondiale inglese: vale a dire Italia e Brasile. Gli azzurri, guidati da Valcareggi, riescono anche complicarsi la vita (è una vocazione): c’è un pesante sfogo di Gianni Rivera e il rossonero sfiora il rimpatrio.
La Selecao, invece, non si crea particolari problemi: il c.t. Zagallo (arrivato al timone nell’imminenza del mondiale) è un accanito fautore dell’idea che il talento vada premiato e vara una prima linea nella quale sono schierati addirittura cinque numeri 10: Jairzinho (Botafogo), Gerson (Sanpaolo), Tostão (Cruzeiro), Pelè (Santos) e Rivelino (Corintias). Và così in onda il parterre del calcio spettacolo. Diverso anche il modo di raggiungere la finalissima: gli azzurri ci arrivano soffrendo (un gol nelle prime tre gare), poi vengono i 120 minuti da cardiopalma contro la Germania (4-3 per gli azzurri) in semifinale.
Negli ultimi 90 minuti non c’è storia: gli azzurri stanchi e svuotati si arrendono (1-4) a uno splendido Brasile, che si aggiudica definitivamente la Rimet, mentre Pelè (unico nella storia) vince il suo terzo mondiale. Chi altri poteva meritare tanto onore?
Il caso
Il ricordo dello schiaffo subito quattro anni prima della Corea del Nord è vivissimo. C’è nervosismo alla vigilia di Italia – Israele, anche perché rischio di dover fare la valigia è concreto.
L’Italia non riesce a passare in vantaggio: troppo spesso le azioni degli azzurri sono interrotte dargli sbandieramenti non sempre puntuali dall’assistente etiope Seyoun Tarekegn, che l’arbitro brasiliano Vieira De Moraes puntualmente raccoglie.
Quando Riva infila l’uno a zero e il giudice di linea africano segnala l’ennesimo fuori gioco, il mitico telecronista Nicolò Carosio avrebbe sbottato: “ma cosa vuole questo negro?”.
Qualcuno vorrebbe l’immediato rientro del giornalista in Italia, ma la Rai riesce a mediare promuovendo alle telecronache dell’Italia Nando Martellini e spostando su un altro girone il focoso e incauto Carosio.
Solo quarant’anni dopo si sarebbe rivisitata la questione e parrebbe che il telecronista quel giorno non disse “negro”; ma comunque pagò.
Franz Beckenbauer (Germania)
Nasce mediano e si trasforma ben presto in libero. Sdogana il ruolo dai compiti unicamente difensivi: è il capostipite del libero moderno, che si propone anche in fase costrutto di costruzione del gioco.
Movenze eleganti e visione di gioco ne fanno il kaiser per eccellenza della Germania europea nel 72 e mondiale nel 74; bissando la Coppa del Mondo con il trionfo del ’90 come tecnico. Una vita nel Bayer Monaco, vince due volte il pallone d’oro. Ha raggiunto i più alti vertici della federazione calcistica tedesca.
Roberto Rivelino (Brasile)
Talento abbinato a forza fisica, un mix non abituale nella Selecao. Il destro gli è totalmente sconosciuto e con la cabeza non ci sa fare: micidiale il mancino, con grandiosa maestria dalla sua unica arma partono pendenti (soprattutto sui calci piazzati) che lasciano il segno.
Nel vittorioso mondiale ’70 e il CT Zagallo schiera una prima linea di fantasisti dal linguaggio comune e al baffuto Rivelino, numero 10 del Corintias, tocca la fascia sinistra. Se la cava alla grande.
Gerhard Müller (Germania)
Baricentro basso, tutt’altro che aggraziato nei movimenti: il suo mestiere è fare gol e l’attaccante del Bayern Monaco lo sa fare davvero bene. Segnia in ogni modo, con i due piedi e di testa: l’aria di rigore è il suo habitat naturale e i gol di rapina il suo pane quotidiano.
Gioca due mondiali e tra i cannonieri sale a quota 14, un bottino senza uguali prima che il brasiliano Ronaldo (Luís Nazário de Lima) nel 2002 e Miroslav Klose (sempre tedesco) nel 2014 lo battano. Vince molto (con la Germania l’europeo e il mondiale) e segna ancora di più. Pallone d’oro nel ’70.